Nel mese di
marzo di settant'anni fa nell'Italia sconvolta dalla guerra si produsse un
fatto inaspettato, che rappresentò la prima vera crepa della dittatura fascista
e l'inizio del lungo e drammatico percorso di riconquista della democrazia e
della libertà. Decine di fabbriche del nord, tra cui quelle più importanti per
la produzione bellica, si fermarono.
La protesta
operaia prese avvio il 5 marzo a Torino, si allargò nei giorni successivi in
città e nei centri vicini, passò nelle fabbriche di altre aree piemontesi; dopo
la metà di marzo si estese alle fabbriche di Milano, di Sesto S. Giovanni e del
circondario milanese, ad altre province lombarde, toccò alcune fabbriche in
Emilia e arrivò fino a Porto Marghera, esaurendosi alla metà di aprile. In
quaranta giorni più di 200mila operai, secondo le valutazioni fasciste, avevano
incrociato le braccia nonostante le minacce, gli arresti e il silenzio stampa
imposto dal regime.
Lo sciopero
ebbe una notevole risonanza anche sul piano internazionale. In effetti si
configurava come un atto di ribellione, un atto politico, perché per la legge
fascista non solo l'interruzione del lavoro era illegale e dunque vietata e
punita, ma in tempo di guerra era considerata un atto eversivo, un tradimento
della nazione fascista in armi.
Che cosa
aveva portato migliaia di operai e operaie ad una prova così rischiosa e piena
di incognite? Il terzo anno di guerra aveva impietosamente rivelato i limiti
dell'Italia coinvolta in uno scontro insostenibile. Per la verità già dopo il
primo anno di guerra l'Italia fascista si era rivelata per quello che era: un
paese dallo sviluppo industriale limitato, condotto da una scelta politica
irresponsabile a misurarsi in un'impresa superiore alle sue forze. Il regime,
anziché prendere atto dell'inferiorità presto evidente, aveva moltiplicato le
occasioni di coinvolgimento fino all'ultima disastrosa avventura a fianco di
Hitler nella guerra all'Unione sovietica di Stalin.
La distanza
tra la visione eroica della nazione in guerra offerta dal fascismo e la dura
realtà delle sconfitte si era fatta troppo grande per essere colmata dalla
propaganda. Inoltre dall'autunno 1942 la guerra, fino a quel punto lontana,
irrompe nella vita degli italiani sottoposti alla minaccia continua dei
bombardamenti alleati e al rischio delle distruzioni e della morte. Ne deriva
una condizione di insicurezza e precarietà che sconvolge le relazioni della
vita quotidiana: centinaia di migliaia di persone, di ogni ceto sociale, con lo
sfollamento dai centri urbani cercano di sottrarsi ad una minaccia che può
colpire in ogni momento e rispetto alla quale le difese preparate dal regime si
sono rivelate inconsistenti.
In questo
quadro in rapido deterioramento e privo di sbocchi si colloca la specifica
condizione di migliaia di operai e operaie. Mentre le fabbriche sono diventate
obiettivi di guerra, le loro condizioni vita e di lavoro si sono deteriorate:
da un lato orari prolungati con ritmi stressanti, dall'altro le riduzioni delle
razioni alimentari e l'aumento dei prezzi mentre i salari sono bloccati. Il
ricorso al mercato nero per un verso diventa una necessità ma per un altro
resta un miraggio perché i prezzi rendono inavvicinabili gran parte dei beni:
anche cibi popolari come pane e pasta si riducono in quantità e peggiorano in
qualità.
Le famiglie
operaie che non possono sfollare sono costrette a una vita sospesa tra la
minaccia che viene dal cielo e le difficoltà della vita in città. Chi invece ha
sfollato la famiglia in campagna deve sottoporsi al disagio di trasporti
sconvolti dalle incursioni aeree, e dagli orari incerti. Le condizioni interne
ed esterne alla fabbrica arrivano presto ad un punto di rottura proprio in
quello che il regime considerava la colonna portante del "fronte
interno".
In effetti
il sistema industriale nel corso dei primi due anni di guerra era cresciuto
assorbendo manodopera. Accanto agli operai specializzati era lievitato il
numero degli occupati nelle produzioni standardizzate dell'industria bellica:
operai poco qualificati, giovani, donne. Le distanze contrattuali tra questi
vari settori del mondo del lavoro erano notevoli, ma dal 1942 l'inflazione e la
scarsità di beni avevano attenuato rapidamente le differenze tra categoria e
categoria. Diventava urgente trovare il modo di difendere le esigenze minime di
vita di tutti. Anche gli operai di alta qualifica, che avevano un notevole
potere contrattuale, diventavano disponibili a rivendicazioni egualitarie
perché, come si diceva in fabbrica, "tutti hanno la bocca sotto il
naso".
Il disagio
operaio si manifesta per vari segni tra la fine del 1942 e l'inizio del nuovo
anno. Sia il sindacato fascista sia le componenti dell'antifascismo avvertono
una situazione nuova nelle fabbriche. L'antifascismo ha subito fra gli anni
trenta e l'inizio della guerra pesanti colpi dalla repressione della polizia
politica fascista. Nelle fabbriche solo i comunisti hanno mantenuto una qualche
debole presenza. Ma le difficoltà della guerra aprono nuovi spazi di
intervento.
Dall'estate
1941 Umberto Massola, su mandato della direzione del Pci, riesce a entrare in
Italia e a ritessere la rete dei collegamenti tra i militanti soprattutto nelle
fabbriche di Torino, Milano e Genova. Questo "velo" organizzativo
riesce a produrre e a far circolare clandestinamente la stampa di partito, che
batte sui temi della guerra ormai persa e delle condizioni di vita e di lavoro
degli operai.
Le proteste
spontanee spingono Massola e il gruppo torinese a lui collegato a tentare
un'iniziativa di protesta basata su rivendicazioni comuni: 192 ore di salario
(erano state promesse agli sfollati e rivendicate per tutti), e un'indennità di
guerra. Una protesta dunque di tipo economico, ma che avrebbe assunto, se
estesa a più fabbriche, un significato politico, come atto ostile al regime e
quindi avrebbe provocato reazioni repressive.
Per ridurre
i rischi i militanti di fabbrica suggeriscono di incrociare le braccia sul
posto di lavoro evitando manifestazioni esterne che sarebbero state represse
con la forza. Si cerca il coinvolgimento della fabbrica più importante sul
piano nazionale, la Fiat Mirafiori, che occupava allora 15mila operai e che per
la presenza di militanti più esperti poteva fare da esempio trainante per
tutti. In realtà le cose andarono in modo diverso: un primo tentativo fallisce
e viene ripetuto venerdì 5 marzo, alle ore 10 all'officina 19 delle ausiliarie
di Mirafiori.
La protesta
ha breve durata e non si estende alla massa degli operai; lo sciopero riesce
invece in modo significativo in due fabbriche di medie dimensioni, dove è forte
la presenza di operai specializzati. Lunedì 8 marzo scioperano otto fabbriche;
il giorno seguente altre ne seguono l'esempio e finalmente dal giorno 11 tutte
le maggiori aziende torinesi, compresa Mirafiori, si fermano. Le forme e la
durata della protesta sono molto diverse a seconda delle reazioni che le
direzioni aziendali, il sindacato, il partito fascista o l'apparato di polizia
mettono in atto. Per cui si va da interruzioni brevi, a volte ripetute, a
blocchi prolungati dell'attività secondo una logica difficile da individuare:
in alcune situazioni le indicazioni dei militanti comunisti sono determinanti;
in altre la protesta procede secondo spinte del tutto autonome. L'apporto dei
comunisti risulta però decisivo nel far circolare le notizie sullo sciopero e
dare un minimo di coordinamento alle richieste.
Così dopo
la metà di marzo lo sciopero si estende da Torino e dal Piemonte a Milano e in
Lombardia. L'Unità del 15 marzo, diffusa nelle fabbriche milanesi, riporta la
cronaca degli scioperi di Torino, le rivendicazioni avanzate e l'invito a
scioperare. L'effetto imitazione funziona e lo sciopero anche qui si estende,
malgrado sindacato e partito fascista, direzioni aziendali e apparato
repressivo siano informati degli sviluppi della protesta. Dove le comunicazioni
con i comunisti delle fabbriche non funzionano per difficoltà interne, come
avviene a Genova, la protesta non decolla. Nell'insieme gli scioperi possono
essere descritti come un'onda anomala, imprevedibile, con comportamenti operai
differenti da situazione a situazione: le strutture del regime sono
disorientate, incerte tra repressione e qualche concessione.
Un bilancio
quantitativo degli scioperi non è facile, tuttavia la cifra di 200mila
scioperanti indicata dal sindacato fascista è un riferimento accettabile. Una
minoranza, come dirà il Duce di fronte al direttorio del partito fascista per
sminuire la portata degli scioperi, e tuttavia una minoranza che coinvolge
quasi tutte le maggiori fabbriche italiane impegnate nella produzione bellica.
D'altra parte la profonda irritazione di Mussolini nei confronti del sindacato,
del partito, delle strutture repressive, cioè di tutto l'apparato del regime
rivelatosi inadeguato rispetto alla novità degli scioperi, stava a significare
che le agitazioni operaie avevano colpito nel segno.
A
complicare le cose c'era il fatto che in molte realtà anche operai considerati
filofascisti o iscritti al fascio avevano partecipato alla protesta. Ulteriore
elemento, per altro sottovalutato, era stata la presenza massiccia nelle
proteste di molte donne, in alcune situazioni le più determinate nello scontro
con le direzioni e i sindacati fascisti. Molte di esse vengono denunciate.
Dunque la protesta operaia rese palese ciò che molti pensavano ma non osavano
dire, e cioè che la crisi da militare si stava trasformando in crisi sociale.
Da qui il carattere politico degli scioperi del marzo 1943, che da questo punto
di vista assumono una valenza cruciale, segnando un punto di non ritorno nella
parabola discendente del fascismo.
Questo dato
è ovviamente sottolineato dai comunisti, che hanno lavorato per avviare la
protesta, accompagnarla e diffonderla. Ma vale anche per le altre componenti
dell'antifascismo politico, stimolate a mettersi in gioco. D'ora in poi i
comunisti, per comune riconoscimento, potranno legittimamente assumere un ruolo
primario di rappresentanza delle forze del lavoro e questo susciterà
l'emulazione delle altre componenti. Già nel corso degli scioperi, ad esempio,
è significativo lo sforzo compiuto dagli azionisti torinesi nel dare rilievo
alle agitazioni, e prezioso si rivelerà il loro apporto per far conoscere sul
piano internazionale la protesta degli operai italiani, che susciterà
attenzioni preoccupate anche nei circoli conservatori e vicini alla monarchia.
D'altra
parte la cifra prevalente delle agitazioni non è quella di una sola componente
politica ma di un soggetto sociale aperto alle proposte della politica. Più in
generale, nel considerare l'insieme della prova sostenuta dagli operai nel
marzo 1943, si può affermare che proprio l'intreccio di azione politica e di
iniziativa spontanea che aveva alimentato gli scioperi costituì l'avvio di una
fase nuova nella storia del paese. E in essa il manifestarsi di un protagonismo
del mondo del lavoro destinato a durare in contesti completamente diversi.
Nei due
difficilissimi anni che seguirono l'iniziativa operaia avrà modo di
manifestarsi con una intensità ed efficacia di gran lunga superiore all'apporto
di altre componenti sociali. Da questo punto di vista gli scioperi del marzo
1943 possono essere considerati il primo passo per una nuova Italia, dove le
forze del lavoro avranno piena legittimazione e un ruolo centrale nel percorso
di avvicinamento alla scelta democratica.
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